venerdì 27 gennaio 2012

Il 27 gennaio non mi ricordo mai... che giorno è?

Titolo alternativo per il cliente esigente che vuole poter scegliere:
Io non dimentico.

Ieri è stato lanciato il primo Lego nello spazio. L'uomo in miniatura, ideato da Matthew Ho e da Asad Muhammad, due diciassettenni di Toronto, è arrivato a un'altitudine di 24 km e il video della sua avventura nella stratosfera è stato prontamente postato su Youtube. Il che dimostra che l'incontro tra due culture diverse può portarte anche a gesti completamente inutili. Che poi inutili fino ad un certo punto. Ognuno ha le sue priorità, io mi sono chiesta per anni dove vadano a finire i palloncini quando volano via dalle mani dei bimbi... 
Domenica a Milano c'erano i leghisti ed erano tanti. Troppi. Da quando sono venuta a lavorare qui al Nord ho sentito una marea di cazzate. Compreso che noi "terroni" veniamo qui in Italia a rubare il lavoro. Oggi è il 27 gennaio, la giornata della memoria. Tutti a postare, scrivere e generalizzare. Qualcuno provoca. I copy si danno come al solito il brief per scrivere il loro staus su facebook sull'argomento. Like come se piovesse. Certo niente a che vedere ma con le dovute proporzioni e tutti gli asteristichi che rimandano al test provato scientificamente su 3 donne su 4: il razzismo non è ma finito. È ancora tra noi in tanti gesti che nemmeno ci accorgiamo di fare nascosto nelle mancanze di rispetto verso il prossimo. Andare a vedere un film muto bello come The Artist e capitare vicino a una coppia che crede di essere ad un pic nic nel parco di Yellowston e sgranocchia Fonzies formaggiose per tutta la durata del film, vedere una filippina che entra con una bimba appena nata sull'autobus e nessuno che si alza per cederle il posto, leggere sul giornale che l'assassino aveva un chiaro accento straniero e poi leggere nell'articolo che non ci sono indizi... tutto questo è già razzismo. 
E come San Valentino non serve a dirsi che ci si ama, la festa della donna non basta per avere pari diritti, il 27 gennaio scrivere frasi di Primo Levi e vedere la Vita è bella o, meglio, Train de Vie non serve a un bel niente. Di cretini che si credono superiori è ancora pieno il mondo e vanno ancora combattuti, pensarci tutti i giorni nei piccoli gesti servirebbe di più.

mercoledì 25 gennaio 2012

Le catastrofi ai tempi di internet

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L'intensità del terremoto è inversamente proporzionale alla quantità di gente che sui social network ce lo racconta.


Oggi non si parla d'altro: il terremoto. L'hai sentito, dov'eri, cosa facevi, come ti avrebbero trovato i soccorritori, cosa avrebbero detto di te i vicini. Davvero non saluti mai? Che stronza. Manca poco alla foto durante la scossa da caricare sul sito della Repubblica. Anche in ascensore non si parlerà del tempo, ed è un peccato perché oggi è bello. C'è il sole. Vespa ha già ingaggiato qualcuno per fare il plastico. Cazzo, come sarà il plastico di un terremoto? Lo voglio! In Giappone un terremoto così lo avrebbero utilizzato per mixare un drink, qui per riempire la giornata di stronzate. Lo sciame sismico di cazzate è inarrestabile, la verità è che quando succede una cosa così in Italia la prima impressione (e anche l'ultima) è che faremmo la fine dei topi nel giro di pochi secondi. Ti si inclina casa e via tutti diventerebbero gli Schettino della situazione. Ma questo è meno importante della sindrome di Studio Aperto che porta la gente a fare il video mentre la nave prende lo scoglio, a twittare mentre gli balla il lampadario sulla testa, a scrivere a tutti gli amici su facebook che l'avrebbero trovato in mutande tra cesso e bidet, e sì, hai ragione che sarebbe stata una morte davvero imbarazzante, così però ora che l'hai detto a tutti lo è di più. La spettacolarizzazione della tragedia. Tutti in fila per farsi una foto davanti ad un disastro ambientale, economico e umano. Ma è ancora chiaro a tutti il confine tra realtà e fiction? Nel caso di un terremoto vero forse sarebbe il caso di mettersi subito in salvo e poi aggiornare lo status. Che ragionamento del cazzo è? Non ci salveremo ma l'importante è che il mondo sappia cosa facevamo mentre ci cascava il condominio in testa? Io poi non ne  scriverei mai di status sul terremoto perché se poi muoio li mettono nel tg: "aveva scritto poco prima che le cadesse il cornicione in testa...". 


venerdì 20 gennaio 2012

Bloggo ergo sum?

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Questo ottimismo mi ucciderà.

- ho il blocco dello scrittore
- ma smettila, che al massimo sei una blogger
- allora ho il blocco della blogger
- ecco, è chiaro: hai un bloggo!

E insomma succede che mi sta andando tutto vagamente bene e non ho più l'ispirazione per scrivere neanche la lista della spesa. Potrebbe essere un problema se per vivere facessi quella che scrive ma... ah, no sì cazzo è un po' un problema. Però ci penso poi, magari si risolve da solo. Io intanto mi mangio i pop corn e mi vedo come finisce questo periodo positivo. Perché tanto finisce, no? E poi moriremo tutti. Sicuro.

martedì 10 gennaio 2012

Punto

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Di cuore.

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Messaggio in codice per target specifico che conosce il prodotto: tumpi, tumpi. 

Finito l’assemblaggio, come a tutte le persone, mi hanno dato un cuore.
Me l’hanno messo lì, appeso al petto, senza spiegarmi come funziona, senza lasciarmi un libretto di istruzioni, senza dirmi come accenderlo e spegnerlo.
Mi hanno detto “usalo” e io pensavo fosse facile, un cuore ce l’hanno quasi tutti, non dev’essere così complicato, insomma, si istallerà da solo, si aggiornerà da solo.
A volte mi è sembrato di usarlo bene. Si gonfiava, faceva entrare le persone, batteva, andava veloce, mi rendeva felice. Altre volte si chiudeva, cacciava tutti fuori, diventava freddo, diventava duro, faceva male. Spesso se ne stava lì, a non far nulla, a non dire niente, a non sentire niente, a non provare niente, calmo, addormentato.
Quando non c’è nessuno dentro, dentro al cuore, le giornate sono tutte uguali, tutte tranquille, tutte senza colori forti, tutte lente. Quando è pieno, ha sempre fretta, ha voglia di cambiare le cose, ha voglia di partire, ma anche di restare, salta dallo stomaco alla gola, scende dalla gola allo stomaco e, di notte, fa così rumore che non riesco a dormire.
All’inizio, lo regalavo spesso a gente che non l’aveva chiesto in dono, che lo guardava e diceva no, grazie, non mi serve questo cuore, puoi riprenderlo. E poi, invece, lo regalavo ancora e lo riprendevo e lo regalavo e lo riprendevo.
Crescendo, quand’è diventato un cuore più allenato, ho iniziato a tenermelo stretto, a contrattare ogni minima cessione, a darlo in prestito per poco tempo, a richiederlo indietro quando iniziava a fare male.
In alcuni momenti, per paura di romperlo, l’ho chiuso in cassaforte e lui, senza aria, ha rischiato di morire.
Ogni tanto, qualcuno me l’ha rubato per gioco, ci ha passato qualche pomeriggio al sole e poi l’ha abbandonato su una panchina. E ho dovuto percorrere tutta la città, a piedi, per recuperarlo, per pulirlo, per rimettermelo al collo.
Non sono sicura, dopo tanti anni che porto questo cuore, di essere riuscita a capire come farlo funzionare. Spesso sbaglio ancora, lo uso troppo o troppo poco, lo uso troppo presto e, molte sciagurate volte, troppo tardi.
A volte si frantuma. E allora provo a ripararlo.
Incollo le schegge minuscole, le rimetto tutte insieme, copro i buchini invisibili e ci soffio sopra, aspettando che la colla si asciughi.
Ma quando le fratture sono grandi, mi serve tanta forza per riattacarle insieme. Mi servono mani più grandi, tipo le tue, che tengano stretti i due pezzi squarciati, uno contro l’altro, e che facciano forza, fino a quando la pressione non li aggiusta e la frattura è solo una linea sottilissima, una cicatrice che, col tempo, non noterò nemmeno più.
In fondo, ecco, è questa la cosa che ho imparato: a volte bisogna essere in due per riuscire a usare un cuore.
E se mi avessero dato quel maledetto libretto di istruzioni, forse ci sarebbe anche stato scritto, che per usare un cuore è meglio essere due. Come c’è scritto sulle istruzioni della libreria dell’Ikea, che ti fanno anche un disegno di due omini per spiegarti che da solo sarebbe troppo complicato montarla, e tu ci provi sempre a farlo da solo, ma mica ci riesci.