martedì 10 gennaio 2012

Punto

Titolo alternativo per il cliente esigente che vuole poter scegliere:
.

Di cuore.

Titolo alternativo per il cliente esigente che vuole poter scegliere:
Messaggio in codice per target specifico che conosce il prodotto: tumpi, tumpi. 

Finito l’assemblaggio, come a tutte le persone, mi hanno dato un cuore.
Me l’hanno messo lì, appeso al petto, senza spiegarmi come funziona, senza lasciarmi un libretto di istruzioni, senza dirmi come accenderlo e spegnerlo.
Mi hanno detto “usalo” e io pensavo fosse facile, un cuore ce l’hanno quasi tutti, non dev’essere così complicato, insomma, si istallerà da solo, si aggiornerà da solo.
A volte mi è sembrato di usarlo bene. Si gonfiava, faceva entrare le persone, batteva, andava veloce, mi rendeva felice. Altre volte si chiudeva, cacciava tutti fuori, diventava freddo, diventava duro, faceva male. Spesso se ne stava lì, a non far nulla, a non dire niente, a non sentire niente, a non provare niente, calmo, addormentato.
Quando non c’è nessuno dentro, dentro al cuore, le giornate sono tutte uguali, tutte tranquille, tutte senza colori forti, tutte lente. Quando è pieno, ha sempre fretta, ha voglia di cambiare le cose, ha voglia di partire, ma anche di restare, salta dallo stomaco alla gola, scende dalla gola allo stomaco e, di notte, fa così rumore che non riesco a dormire.
All’inizio, lo regalavo spesso a gente che non l’aveva chiesto in dono, che lo guardava e diceva no, grazie, non mi serve questo cuore, puoi riprenderlo. E poi, invece, lo regalavo ancora e lo riprendevo e lo regalavo e lo riprendevo.
Crescendo, quand’è diventato un cuore più allenato, ho iniziato a tenermelo stretto, a contrattare ogni minima cessione, a darlo in prestito per poco tempo, a richiederlo indietro quando iniziava a fare male.
In alcuni momenti, per paura di romperlo, l’ho chiuso in cassaforte e lui, senza aria, ha rischiato di morire.
Ogni tanto, qualcuno me l’ha rubato per gioco, ci ha passato qualche pomeriggio al sole e poi l’ha abbandonato su una panchina. E ho dovuto percorrere tutta la città, a piedi, per recuperarlo, per pulirlo, per rimettermelo al collo.
Non sono sicura, dopo tanti anni che porto questo cuore, di essere riuscita a capire come farlo funzionare. Spesso sbaglio ancora, lo uso troppo o troppo poco, lo uso troppo presto e, molte sciagurate volte, troppo tardi.
A volte si frantuma. E allora provo a ripararlo.
Incollo le schegge minuscole, le rimetto tutte insieme, copro i buchini invisibili e ci soffio sopra, aspettando che la colla si asciughi.
Ma quando le fratture sono grandi, mi serve tanta forza per riattacarle insieme. Mi servono mani più grandi, tipo le tue, che tengano stretti i due pezzi squarciati, uno contro l’altro, e che facciano forza, fino a quando la pressione non li aggiusta e la frattura è solo una linea sottilissima, una cicatrice che, col tempo, non noterò nemmeno più.
In fondo, ecco, è questa la cosa che ho imparato: a volte bisogna essere in due per riuscire a usare un cuore.
E se mi avessero dato quel maledetto libretto di istruzioni, forse ci sarebbe anche stato scritto, che per usare un cuore è meglio essere due. Come c’è scritto sulle istruzioni della libreria dell’Ikea, che ti fanno anche un disegno di due omini per spiegarti che da solo sarebbe troppo complicato montarla, e tu ci provi sempre a farlo da solo, ma mica ci riesci.